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I pokeristi discriminati: «Di cosa dovremmo vergognarci?»
«Per tutta la preparazione mentale che bisogna fare prima di approcciare un torneo. Questo agonismo, misto alla tattica, lo rende uno sport vero e proprio.»
Queste parole sono di un grande ex del tennis che da qualche anno passa molte ore al tavolo da poker, il suo secondo amore. Sono di Boris Becker, il quale non esita a chiamare sport quello che per molto tempo è stato accomunato al gioco d’azzardo. Eppure, nonostante di acqua sotto i ponti ne sia passata parecchia, il poker è spesso messo alla berlina. Nel 2012.
Gli ultimi a subire le conseguenze di un’opinione sul poker dominata dall’ignoranza sono stati Irene Baroni e Davide Costa: niente appartamento in affitto per loro, giocano a poker, sono poco di buono. Sembra incredibile, ma la coppia è in buona compagnia. Mi è bastato domandare un po’ in giro per rendermi conto di quanto per un giocatore di poker anche le più semplici interazioni sociali possano trasformarsi in qualcosa di ben più complicato.
«Anche a me è successo qualcosa di simile in Italia» racconta Fabrizio Baldassari che da qualche anno ha lasciato la penisola, «Volevo depositare le vincite accumulate grazie al quarto posto fatto a Sanremo (Campionato Italiano nel 2008, ndr) e a qualche sessione positiva ai tavoli Cash. La banca non accettava quel denaro perché non riconosceva la provenienza come fonte affidabile.»
SuperBaldas continua: «Quando qualche anno fa dicevo che come professione facevo il giocatore di poker venivo visto come un bandito. Mi sono trasferito a Monaco dove la nostra è un’attività regolarmente riconosciuta come lavoro; puoi anche decidere di aprire una società per gestire la tua immagine, pagando il giusto e avendo tutti i benefici del caso. Speravo che in Italia fosse cambiato qualcosa grazie alla pubblicità e al clamore che sta suscitando il poker ma dopo aver letto quel ch’è successo a Davide e Irene credo che ci vorrà ancora molto, molto tempo.»
In altri casi la mancanza di fluidità nelle relazioni sociali si palesa nell’omissione parziale o totale della propria professione durante le più comuni interazioni. «Ti dico la verità — confessa Aldo Zambruno — alla domanda “Che fai nella vita?” spesso cerco di sorvolare e accennare vagamente a ciò di cui mi occupo. Perché quando rispondo in tutta sincerità, tranne in rari casi, trovo incredulità, sbigottimento e perplessità; ti guardano con la faccia critica e sembrano pensare che sei un povero illuso, uno di quelli che giocano d’azzardo dilapidando patrimoni.»
«Purtroppo — riprende Aldo — mi rivedo molto in quello che è accaduto a Irene e Davide, due cari amici. Ma è quello che accade al di fuori del nostro mondo: per chi ci vede dall’esterno siamo una sotto-razza diversa, alienata… bisogna essere pazienti e confidare, essere ottimisti pensando che un giorno non troppo lontano il nostro mondo possa essere meglio compreso. Fino ad allora dovremo essere bravi a convivere con le fobie, le perplessità e i dubbi di chi — e parlo anche di amici, parenti e genitori — non ci capisce.»
Il bilancio complessivo non cambia nemmeno per Oreste Pomi, il quale però si dice convinto che queste dinamiche siano EV+ per i giocatori più preparati: «Non dico mai che lavoro faccio realmente, mi tengo nel vago e spiego semplicemente il campo in cui lavoro, solo gli amici sanno tutto. In Italia domina il perbenismo, ma se ci pensate bene è un fatto positivo perché è proprio a partire da questo sentimento dominante che si possono fare infiniti soldi con questo gioco. Se la maggioranza delle persone capisse le reali potenzialità del mondo del poker arriverebbero ottimi giocatori pronti a studiare e impegnarsi.»
Per Daniele Amatruda non è stato facile nemmeno con i genitori: «Ci hanno messo un anno e mezzo per accettare il mio lavoro; stiamo parlando di cinque anni fa, quando era tutto sicuramente più difficile rispetto a ora; ma se loro, che sono piuttosto moderni, ci hanno messo così tanto con me che ero li a spiegare ogni giorno le dinamiche, figuriamoci una persona che non ti conosce e che non conosce il poker.»
Ho sentito molti altri pokeristi — Antonio Failla, Alessandro ‘Volander’ Botteon, Massimo ‘MaxShark’ Mosele e Michela Antolini tra gli altri — per questa sorta di bilancio e la musica è sempre quella. Dicono siano alienati dal mondo reale, che inseguano aquiloni, ma tutti si fermano alla critica, allo scetticismo. È qualcosa di già visto e che forse stiamo ingiustamente metabolizzando, qualcosa a cui ci si abitua pur di riconquistare una parvenza di equilibrio che poi, quando ci si ferma un momento a riflettere, crolla e lascia spazio a una ferita che continua a far male, come sempre.
Forse, mi dico, conviene dar retta ai più giovani, quelli meno rassegnati, quelli più combattivi. Quelli che hanno incassato meno colpi e che ancora hanno la voglia di incazzarsi pur tenendosi un bel sorriso stampato sulla faccia. Quelli che assomigliano a Giorgia Tabet e che, come lei, decidono di camminare a testa alta perché «Sinceramente sono fiera di quello che faccio e soprattutto di come lo sto facendo. È una professione e come tale richiede le stesse rinunce e gli stessi sacrifici di qualsiasi altra attività. Di cosa dovrei vergognarmi?». Già, di cosa dovremmo vergognarci?