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Il mio Big One for One Drop
A fare un salto indietro, nel 2012, ci accorgeremmo che quell’anno è ricordato per svariati avvenimenti: dal disastro della Costa Concordia alla rielezione di Barack Obama, dall’Italia che cede in finale alla Spagna agli Europei alla scoperta del Bosone di Higgs.
Pokeristicamente parlando, però, più dei vari braccialetti e dei trionfi milionari, il 2012 è senza dubbio ricordato per un avvenimento in particolare: in quell’estate, infatti, vi è stata la prima edizione, a Las Vegas, del Big One for One Drop, torneo di Texas Hold’em dal costo di iscrizione di 1 milione di dollari. Esatto, un milione a testa.
Chi vi scrive ha avuto la fortuna di essere a Sin City in quell’occasione a fianco dei gambler milionari che, i primi giorni di luglio di quell’anno, si sono dati battaglia per un evento che è rimasto nella storia del poker.
Un torneo di poker senza precedenti
A metà 2011, il miliardario canadese Guy Laliberté, proprietario –tra l’altro – del famoso Cirque Du Soleil, e con un patrimonio stimato di oltre due miliardi di dollari, si mette in testa di unire la sua enorme passione pokeristica (settore in cui, diciamocelo, non è che abbia conseguito grandi risultati) con il piacere del volontariato (qui invece, onestamente, si è sempre dimostrato un fuoriclasse, sempre vicino ai meno fortunati).
Affiancato dallo staff delle WSOP e da quello del Casinò Rio, Lalibertè riesce nell’impresa di organizzare un torneo di poker dallo stratosferico buy-in di 1 milione di dollari, con la promessa che il 3,5% dell’intero montepremi venga devoluto alla One Drop Foundation, un ente benefico che si occupa di costruire acquedotti e infrastrutture nei poverissimi paesi centroafricani.
Il poker, a livello mondiale, è nei suoi anni più brillanti in assoluto e il numero di adesioni, tenuto conto della proibitiva spesa di iscrizione, risultano essere fin da subito relativamente elevate. Tanto da mettere un CAP al torneo, che viene fissato ad un massimo di 48 giocatori.
Il confronto tra professionisti del poker e businessmen
Fin da subito è chiara la netta suddivisione del field dei partecipanti: da una parte si schierano i grandi professionisti di Las Vegas (anzi, i grandissimi), come Dwan, Hellmuth, Negreanu, Ivey, Mizrachi; dall’altra, ambiziosi businessmen provenienti da tutto il mondo alla ricerca di qualche emozione forte. Difficile che possa prevalere uno di loro: il torneo ha una struttura molto profonda, spalmato su tre giorni di gioco; mai come in questa occasione dovrebbe evidenziarsi ben presto il presunto gap tra professionisti e amatori.
Al termine del Day 1, infatti, dei 48 partenti ne rimangono 37; degli 11 “caduti” molti sono i suddetti grandi uomini d’affari.
Il Day 2 vive di emozioni, dal momento che dai 37 partiti a mezzogiorno di Las Vegas si arriva – con una crudele scrematura – agli 8 sopravvissuti meritevoli di disputare il tavolo finale.
I poker pro Antonio Esfandiari e Sam Trickett guidano il chipcount del final table; tutto sommato la schiera dei businessmen, che tanto doveva fare da vittima sacrificale, si difende invece bene, con tre rappresentati al final table, tra cui Guy Lalibertè stesso. Molto alta è l’attesa attorno a Phil Hellmuth, nettamente il più “mainstream” degli 8 finalisti.
Il mio One Drop di Las Vegas
Come anticipato, il sottoscritto in quel momento si trovava a Las Vegas, in compagnia di alcuni poker-pro veneti (tra cui un giovane Luca Stevanato, agli albori della sua carriera pokeristica).
Sin City, nei tre giorni del One Drop, è letteralmente al centro del mondo: sulla ESPN non si parla d’altro, e la presenza giornalistica, nel Nevada, risulta essere nettamente più corposa in quei giorni che nel resto delle WSOP.
Dopo aver scommesso una cena tra di noi su chi sarebbe potuto essere il vincitore (cena che nessuno mai pagherà o riscuoterà, dal momento che i nostri candidati Mizrachi, Ivey, Duhamel e Dwan si arrenderanno ben prima del traguardo), ci togliamo anche lo sfizio di accedere all’area di gioco poco dopo lo Shuffle Up and Deal del day1, seduti nelle tribune allestite per i tavoli finali dell’Amazon Room del Rio.
Cosa che, il day3, non è assolutamente possibile: la sala destinata al tavolo finale diventa pressoché inaccessibile, ma in compenso tutta, ma proprio tutta la città è assolutamente paralizzata per via dell’evento: non vi è persona che non parli di ciò che sta avvenendo al Rio, e tutti i maxi schermi dei Casinò sono univocamente sintonizzati sul tavolo finale.
Nel primo pomeriggio, decidiamo dal canto nostro di passare per il Casinò Aria per una sessione di cash game. Personalmente vengo indirizzato al tavolo 14, che si trova a meno di due metri lineari da un tavolo high stakes, in cui riconosco Eli Elezra e Jean Roberte Bellande. I due, durante la loro partita, guardano con interesse il final table in tv, e io, più che concentrarmi sulla mia partita, mi focalizzo sui loro commenti, dal momento che Elezra (con il suo accento che vagamente mi ricorda Apu dei Simpsons) commenta molto vivacemente le fasi di gioco del One Drop.
Antonio is unstoppable! Look at him, he catches every time!
In effetti, Esfandiari sta spadroneggiando al Final Table.
It’s so damn hot!
Devo dirlo: non mi sembra molto felice dell’andamento delle cose al Rio. In quel momento penso che abbia quote da qualche altra parte. O forse, che avrebbe potuto chiederle ad Esfandiari ma che alla fine non se ne sia fatto nulla.
Anche perché, ad ogni colorita affermazione, Bellande scoppia in una risata irridente, scrollando la testa.
Phil is complaining every single time..
In effetti, non serviva Elezra a ricordarmi che Hellmuth è veramente lo stereotipo del “whiner”.
Tutti contro Hellmuth
Tra una risata di Bellande e l’altra, il tavolo finale al Rio si riduce a quattro partecipanti, io saluto idealmente il mio nuovo amico Eli e mi sposto al Casinò Venetian, dove la partita (per me) risulta più semplice.
Anche nella poker room del Venetian, del resto, tutti i monitor sono accesi su ESPN, e una simpatica signora che si siede al mio tavolo inizia a spiegarmi (ma chi gliel’ha chiesto?) di come Hellmuth sia un gentleman fuori dal tavolo verde ma un vero rompiscatole durante i tornei.
Credo di averle risposto in italiano una cosa del tipo “Ma và? Non l’avrei mai detto”.
Tuttavia resterà indelebile la scena di quando lo stesso campione di Palo Alto pochi minuti dopo sia andato in allin: A10 di picche per lui contro AQ di cuori di Sam Trickett.
Il flop A 10 5 con due cuori è per deboli di cuore, ma lo è ancora di più il turn, un K di quadri.
Ricorderò per sempre il “woooooooooooooo” dell’intera poker room del Venetian alla caduta del turn. Un sospiro di emozione e di eccitazione da parte di tutti i giocatori, dal momento che in quel momento praticamente metà mazzo avrebbe dato la mano migliore a Trickett.
Sospiri che si tramutano in applausi e grida di giubilo quando al river cade un J che da la scala a Trickett ed elimina Hellmuth, per la gioia (che non comprendo del tutto) degli avventori del Venetian. Manco avesse fatto gol la nazionale (o meglio, un touchdown la propria squadra di Football Americano): credo di aver visto più persone battersi il cinque.
In un paio d’ore, poi, Antonio Esfandiari surclassa in heads-up lo stesso Trickett, portando a casa un premio da 18 milioni di dollari, oltre al primo braccialetto del One Drop.
Anche se –ovviamente- non avevo alcun interesse in quel torneo, riconosco di essermi veramente divertito, mescolato ai pokeristi americani, a tifare per questo o per quel giocatore.
Aver visto una città come Las Vegas -spesso abituata ad essere teatro di grandi eventi sportivi o mediatici- quasi fermarsi per un (ricchissimo) torneo di poker, mi ha reso quasi orgoglioso di far parte della comunità del gioco delle due carte.
Di One Drop, negli anni avvenire, se ne sono visti altri: ma il primo, quello in cui Esfandiari era so damn hot (per dirla alla Elezra), resterà nel cuore della fiabesca città del Nevada.