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Il pirata “Devilfish”, la bolla e la lezione americana
Marco Wegher si aggira nervoso tra i tavoli osservando gli stack dei rivali.
Dave Ulliott si mette in ginocchio sulla sedia, e con quello sguardo di sbieco e il viso segnato da anni di bagordi pare un pirata che sale di vedetta sul pennone più alto della nave, guardando il mare in cerca di qualcosa.
“Devilfish” vuole capire se i pochi avversari più corti di lui stiano per spingere i resti, e mettere così a repentaglio la loro chance di andare a soldi prima di lui.
Le carte, in questi momenti, cambiano di valore. Wuby passa kappa-kappa-banana-banana: non è il momento di mettere fiches nel piatto con una mano così. I big stack Baron, Mizzi e Hougaard, spingono come assassini per rubare il rubabile, cementando così ancor più la loro leadership.
La tensione si respira palpabile tra i tavoli, il silenzio viene interrotto solo dal frinire delle chip.
E’ la fase più tecnica del torneo: quella in cui i giocatori più deboli fanno più errori, e quelli più forti costruiscono i loro successi. E’ la bolla. Una specie in via di estizione, soprattutto in Italia.
Impariamo dalle Wsop. E difendiamola, anche nel Belpaese. Perché senza di lei il poker da torneo non è la stessa cosa.