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Spazio alle WSOP nella nuova sala Pavillion
Sono di nuovo qui a Las Vegas dopo una ventina di ore di viaggio, nelle quali ho pure dormito. Ero in mezzo a due cinesi, non dico brutte perché son quasi tutte uguali (poi scegliete voi se vi piacciono o meno) che, fortunatamente, non hanno detto una parola.
I cinesi, in effetti, sono così, come al casinò: o giocano nel silenzio più assoluto o rompono le scatole a tutti. Beh, mi sento un leone e volo subito al Rio, per rivivere l’ atmosfera che non respiro da un anno e per vedere la nuova sala, Pavillion, che mi dicono immensa. Lo è, all’ incirca 300 tavoli per 3000 posti a sedere. Quando entro sono già le 2 del mattino e l’ aria è da smobilitazione o, se preferite, da preparazione.
Un panciuto signore fa le pulizie mentre quattro ragazzi in bermuda sbraitano entusiasti al cospetto di un river amico. Due esponenti della security chiacchierano amabilmente tra di loro, senza incutere alcun timore. Del resto la donna ha passato i 50 e sembra che da un momento all’ altro ti inviti a bere un caffè caldo, l’ uomo, che, invece, ha passato i 60, da l’idea che in eventuale scontro con dei rapinatori debba sconfiggere prima la sciatica poi loro.
Quasi tutti i tavoli sono vuoti e la sala assume un aspetto ancora più maestoso, con le bandiere di tutti i Paesi che scendono dal soffitto e tanti monitor. Una lunga camminata su un tappeto color crema, con la chiara sensazione di sfiorare storie, sogni e sconfitte. Di successi duraturi neanche l’ ombra: forse qualcuno effimero, quello si.
I tutori della sicurezza, nella loro divisa blu che fa a schiaffi con la carta d’ identità, si guardano complici di fronte alle urla trionfanti di alcuni avventori: sanno che presto finiranno tra le fauci di qualche professionista che li spennerà. E lui, statene certi, non urla. Quella sala si riempirà, presto, molto presto, sarà una distesa di pokeristi.
Ma ho la sensazione che chi la vive ora si senta unico, come se stesse palleggiando da solo al Madison Square Garden. Un tiro e la palla che entra: urla, mani al cielo, e ringraziamento al pubblico. Solo che non c’è, arriverà domani, per vedere i campioni e sarà tempo di tornare in tribuna, ma, almeno, con un ricordo addosso.
Ancora due passi sul tappeto color crema, ancora uno sguardo ai tanti tavoli: sono nella nuova sala del Rio, nuovo tempio delle emozioni. Le altre, evidentemente, non bastavano: che c’è di male a sognare?
Jack Bonora