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Pool senza party: il Cue Club di Las Vegas
LAS VEGAS – Forse sarà dura crederci, ma lontano dalle luci al neon, dai Casinò e dagli eccessi della Strip, Las Vegas è una città come tante altre degli Stati Uniti.
Dove i viali si allungano e l’opulenza ostentata lascia spazio alla degradazione, sorge il “Cue Club”: come indica un cartello fieramente appeso all’ingresso, “il miglior posto della città dove giocare a biliardo“.
Il locale si trova in in un piazzale sul retro di Sahara Avenue ed è aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, senza interruzioni di alcun tipo fin dal lontano 1964.
Se arrivando non vedete una luce, dunque, non preoccupatevi: sono i vetri a specchio dell’ingresso che lo fanno sembrare chiuso.
Entrando si trova il bancone del bar. Davanti una distesa di ben 24 tavoli da biliardo.
In alcuni ci sono dei locali che si riuniscono per tirare a stecca. In altri dei giocatori – perlopiù avanti con gli anni – si esercitano in solitaria con tiri e angoli.
Le facce non sono proprio rassicuranti, ma basta scambiare due chiacchiere per capire che nessuno ha cattive intenzioni.
Il gestore è un personaggio ciarliero, alla mano, sempre con il sorriso in bocca e la battuta pronta. Quando si presenta ci spiega di essere un controsenso vivente:
“I miei genitori erano ebrei di Germania ma mi hanno chiamato Reich, non so cosa diamine avessero in mente quando sono nato… – dice ridendo. Per sua fortuna di cognome non fa ‘Third’ (‘terzo’), altrimenti avrebbe avuto un nome davvero pesante da portare.
Per nostra fortuna, dopo averci servito una birra, Reich ci dà le dritte del caso su tavoli e stecche:
“Se volete andate pure nei tavoli grandi, ma non vi conviene… costano undici dollari l’ora. In questi davanti al bancone invece basta mettere un dollaro ed escono le palle. Le stecche però andate a prenderle in fondo che queste sono un po’ storte”.
Ovviamente non ce lo facciamo ripetere due volte. Un brindisi con Reich ci chiarisce anche che nel locale si può fumare liberamente (foto sopra), e anche qui non ce lo facciamo ripetere due volte.
Tra una birra e una sigaretta, andiamo avanti a tirare palle un paio di ore. Nel locale c’è un andirivieni continuo, anche se la sala non si riempie mai: vediamo ragazzini vestiti in modo strano, coppie che arrivano a passare il tempo, desperados messicani che sembrano sull’orlo del coma etilico.
La notte avanza e con essa anche la fame. Il cordialissimo Reich ci indica dei distributori di pistacchi e muesli assortiti che funzionano a quarti di dollaro. Vanno bene come sfizi, ma non di certo per riempire lo stomaco.
Così ci porta il menù di un posto lì vicino che fa consegne a domicilio. Prendiamo una pizza da dividere in quattro. Altre due partite per decidere chi pagherà, e la possiamo mettere sotto i denti.
Un altro paio per bagnarci la bocca con l’ultima birra e si è fatta ora di andare. Reich ci saluta con le quattro parole in croce di italiano che conosce e ci dice che il proprietario è un ungherese che ha un passato da poker pro… ma questa è un’altra storia che prima o poi racconteremo.