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Qualche mito da sfatare sull’ICM
Tra qualche giorno parleremo più ampiamente del libro “La strategia nelle fasi finali – il libro sull’icm” di Dara O’Kearney con Barry Carter, tradotto in italiano da Giada Fang.
Intanto sulle colonne del portale statunitense Card Players il professionista e autore irlandese ha sfatato alcuni miti sullo independent chip model, il modello matematico che guida le decisioni nelle fasi finali dei tornei di poker, in cui l’aspettativa di vincita delle azioni di gioco non è più in chips ma diventa monetaria.
Il più grande errore
Per iniziare, l’irlandese individua un grande errore basilare che viene commesso nelle fasi conclusive dei tornei di poker:
“Il più grande errore riguardo l’ICM è ignorarlo completamente e giocare troppo loose. Per tanti, semplicemente, già giocare un po’ più tight nelle fasi finali dei tornei avrebbe un notevole impatto positivo. Ai tavoli finali si vede spesso il problema opposto. Giocare un tavolo finale come se fosse una partita cash è un grandissimo errore e anche giocarlo come se fosse un satellite è una brutta idea.”
Pressione ICM e payjump
O’Kearney chiarisce poi che c’è un fraintendimento più o meno generalizzato sui momenti dei tornei in cui la pressione ICM è più alta:
“Il momento in cui la pressione ICM si fa sentire di più è all’avvicinarsi del tavolo finale. Un altro falso mito dell’ICM è che i pay jump siano un buon metro di misura della pressione ICM, ma è vero esattamente il contrario. Come spiegherò poi, in un tavolo finale l’ICM è più alta all’inizio – col payjump più basso – e cala a ogni eliminazione. Quando c’è lo scalino di premio più grande, ossia al testa a testa finale, ebbene quello è l’unico momento del torneo in cui l’ICM non ha un peso!”
Pressione ICM e stack
L’autore irlandese sgombra il campo anche da un falso mito che vuole la pressione ICM inversamente proporzionale alla profondità degli stack.
“Un altro falso mito è che la pressione ICM maggiore è sugli short stack. Mentre ciò è vero in bolla premi, in un tavolo finale lo short stack, insieme al chipleader, è il giocatore che ha la pressione ICM più bassa.”
Per spiegare perché, O’Kearney tira in ballo il concetto di ‘fattore bolla’ (“bubble factor”).
“Il ‘Fattore bolla’ (Bubble Factor) misura quanto, nei tornei di poker, perdere chips danneggi in misura maggiore rispetto al vantaggio portato dall’accumularne. Se hai un fattore bolla pari a 2 significa che per ogni 2$ di equity che rischi vinci solo un euro di equity. Non andrò qui nei dettagli ma con un bubble factor di 2 hai bisogno del 66% di equity per rischiare la tournament life.
Il fattore bolla cambia durante il torneo per uno stack medio, nonostante gli stack medi siano quelli che soffrono di più la pressione ICM. Per esempio a un tavolo finale il chipleader ha un fattore bolla più basso perché non può essere eliminato da nessuno, mentre lo short ha il fattore bolla più basso perché è quello che ha meno da perdere. Il fattore bolla non è reciproco. Quando uno short stack gioca contro un altro short stack, o contro un big stack, entrambi hanno un basso fattore bolla.”
Proprio per la pressione ICM sofferta dagli stack medi, O’Kearney consiglia agli short stack di sceglierli come obiettivi da aggredire, visto che sono quelli che più possono essere danneggiati e quelli che più hanno da perdere.
Perché il fattore bolla decresce a ogni eliminazione?
Infine, O’Kearney spiega come nei tavoli finali la pressione ICM decresce a ogni eliminazione:
“Dipende dal fatto che ogni eliminazione permette ai giocatori che restano nel torneo di realizzare tanta equity. Prendiamo a esempio un torneo da 50$, quando arriva alla fase 9-handed i payjump possono essere 1.000-2.000-3200: può sembrare tanto, in particolare in rapporto al buy-in, ma a quel punto la equity del tuo stack potrebbe essere anche di 10.000. Ciò significa anche che quando scali il gradino di 2.000$, questo importo è stato realizzato da tutti i player ancora in gioco e la pressione ICM diminuisce perché la parte di montepremi che resta in gioco è più bassa.”