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Identikit di un rounder a Las Vegas “Con il poker qui si può vivere bene”
LAS VEGAS – Avete presente Mike McDermott in Rounders, quando va ad Atlantic City con Verme a spennare turisti inesperti e magari ubriachi trovandosi a dividere il tavolo con una fila di altri regular? Bene, questa specie di regular esiste anche a qui Las Vegas. Ed è, ovviamente, diffusa. Parecchio diffusa. Anche se, spesso, non è così facile individuarla.
Perché la verità è che i veri “rounders”, ormai, fatichi a riconoscerli nella città del Peccato. Occhiali da sole, cuffie, toppe di poker room sulle magliette infatti sono roba superata. Non ne sono più, se mai lo sono stato, il tratto distintivo.
Anzi, molto spesso i giocatori che si travestono da pro con tutti questi ammennicoli, pro non sono affatto. Lo capisci da come giocano, dagli errori che fanno al tavolo. Dai discorsi di mani e di successi in fantomatici tornei che nascondono sotto la crosta di vero rounder una sostanziale insicurezza nel proprio gioco. Questa è gente che vorrebbe, ma non può. Non ne è ancora capace. E quindi a Las Vegas non vi deve spaventare più di tanto, se sapete il fatto vostro e volete sedervi al tavolo.
Il vero professionista, quello che dovete evitare, invece si mimetizza. Non ha bisogno di dimostrare ciò che è. Perché sa già di esserlo, non gli serve apparire, e i soldi che incassa quando il sole si sta alzando gli bastano ad appagare, o meglio, a pagare, il suo ego.
Finge, tanto per esser chiari, di essere un turista come tutti gli altri. Come Seth, ragazzotto del Mississippi che con quel viso lungo e affilato, assomiglia ad Huck Seed. Avrà 25 anni, veste una bruttissima camicia a scacchi a mezze maniche, ha l’incarnato pallido ed è secco come un chiodo.
Si siede al tavolo di un casinò periferico, giù per Flamingo Road, quando il torneo domenicale organizzato in loco sta per finire e i primi eliminati si siedono per un 1-2 leggero leggero con 100 dollari a testa davanti. Lui invece carica 200, il massimo consentito qui, ordina una birra alla cameriera, non la Red-bull d’ordinanza del finto pro, ma la sorseggia appena. Finge di esser lì per divertirsi, parla ed è affabile con tutti al tavolo, ma non perde di vista nulla di quello che succede attorno a lui.
“Sono qui in vacanza” dice addirittura a un certo punto, stando bene attento a non fare accenno a tornei di World Series o che altro. Però il modo in cui gioca, ponderatamente aggressivo, attaccando in posizione soprattutto un messicano ubriaco che sta sculando come un pazzo, ed evitando invece i due tre target più sensati del tavolo, lo smentisce.
Nelle mani importanti fa domande a trabocchetto a caccia di tell. “Vuoi che chiami o no?”. Il messicano abbocca come un pollo. E un pot via l’altro finisce pulito come il fondo della bottiglia della sua sesta Corona serale. L’ultimo resto però non glielo vince Seth, ma un signore di mezza età che gioca male, ma non quanto lui. Ecco il nuovo target del ragazzotto del Mississippi.
Due colpi dopo Seth fa colore nuts al turn, bussa dopo aver puntato flop e esser stato chiamato dal signore, e questo gli tira tutto addosso in bluff con due overcards e un progetto a colore al re. Easy money. “Tu non sei qui in vacanza, non è vero?” gli faccio.
“Lo ammetto. Non sono mai venuto a Las Vegas in vacanza – mi risponde, quando ormai al tavolo i player manifestamente meno capaci hanno finito i soldi ed è abbastanza evidente che il prossimo bersaglio potrei essere io -. Vengo qui un paio di volte all’anno, quando ho voglia di evadere dalle giornate passate davanti al computer a clickkare su un mouse. Ci sono ampi margini di profitto anche qui, con il poker ci si può mantenere bene, anche se la varianza è più alta perché si giocano pochissime mani all’ora rispetto al cash game on line. Però in compenso è più facile trovare gente che faccia errori macroscopici, come il nostro amico che c’era qui prima. Comunque l’on line dà più garanzie. Per staccare però va bene”.
Fondamentale per fare soldi, spiega Seth, è la scelta del casinò. “Bisogna trovare i tavoli adatti – continua -. Nel periodo delle World Series ci sono tantissime partite in giro, ma bisogna saper trovare quelle giuste. Io ad esempio evito posti come Bally’s, Bellagio e roba del genere, troppo pieni di regular o comunque di giocatori non manifestamente scarsi, e preferisco partite in posti un po’ fuori dal giro come questi, anche se devo accettare limiti più bassi di quelli a cui gioco abitualmente.
E ora – conclude – nell’ultima settimana delle Wsop tornerò al Rio”. Come scusa, ma al Rio non c’è un livello più alto, visto che li ci sono le Wsop con tutti i più forti al mondo a nuotare nello stagno? “No, perché molti credono di saper giocare e invece non hanno idea di quel che fanno. Ci sono tanti palloni gonfiati. E poi verso la fine delle Wsop al Rio ci sono un sacco di europei che non si accontentano di aver perso un sacco di soldi nei tornei e buttano tutto quel che gli è rimasto nei piatti sperando di rientrare. E lì ci sono dei bei guadagni da fare”.
Che in mezzo a questi europei ci siano anche diversi italiani? Altra risata. “Anche. Io l’Italia però l’adoro. Ci sono stato cinque volte in vacanza”. Vacanza vera o, per così dire, di lavoro? “No, no, vera. Però se dovessero davvero diventare legali le poker room, come mi accennavi, penso che potrei venire a vivere lì per un po’. Sarebbe il mio sogno”.
Non il nostro, caro Seth. Anzi, guarda, già che ci siamo e visto che non sei ancora riuscito a portarceli via tutti, i nostri soldini, meglio alzarci. Parliamone quando vuoi, ma lontano da un tavolo. Seth accetta, di buon grado. E si alza con i suoi 700 dollari. Anche oggi si è guadagnato la pagnotta.
Las Vegas, dal nostro inviato Rudy Gaddo